Difesa comune Ue ed equilibri mediterranei

Al di là delle singole missioni militari e delle formalità tra reparti è chiaro che le numerose bandierine piazzate nel Sahel dovrebbero servire a riannodare i fili e cercare di recuperare il terreno perso in Libia anche a causa degli errori di precedenti gestioni politiche. Il momento è propizio.

Il cambio di passo alla Casa Bianca tra Donald Trump e Joe Biden è tornato utile per chi cerca di rendere il ruolo atlantico dell’Italia un po’ più solido, senza però perdere di vista il futuro della Difesa comune Ue. Non sappiamo se non ci saranno più soldati Usa nell’area ma sappiamo che Africom resterà operativo. E noi potremo vantare rapporti privilegiati. Un gioco di sponda dentro un progetto europeo che vede la questione africana come un tutto unico. Ma che al tempo stesso ci lascia liberi di guardare agli Usa come interlocutori diretti. E non solo nel Sahel. Ma anche in Iraq e pure in Libano. A Mosul, nella periferia del Mediterraneo, toccherà a noi subentrare agli americani nella gestione della missione Nato che avrà il compito di vigilare affinché non si riformi lo Stato islamico.

Dove la responsabilità della missione è passata ai nostri militari. Un compito che è stato rilanciato, anche se indirettamente, dalla recente visita di papa Bergoglio che là dove erano state decapitate le statue della Madonna è tornato a piantare la Croce. Un segnale per il cattolicesimo e per il cristianesimo molto importante, e che ora è possibile perché il terreno in questi anni è stato sgombrato dagli anfibi dei soldati. In fondo, speriamo che la storia si ripeta magari al contrario. E con il tempo si possa recuperare nell’area la presenza cristiana che l’uccisione di Tariq Aziz, il vecchio ministro di Saddam Hussein, ha contributo ad annichilire.

Ma il vento in poppa per la diplomazia militare ci auguriamo non si fermi qui. L’Italia ha da tempo il comando della missione Onu in Libano. Saputo del ritiro di una nave indonesiana e della richiesta di Pechino di inviare una propria fregata davanti alle coste del Libano, «il ministro Guerini si è fatto avanti», «per avanzare la candidatura di una nave italiana. Dal momento che la responsabilità della missione è tricolore difficile immaginare che venga detto di no», riportava l’articolo di un quotidiano. Il segnale agli Usa è stato chiaro. Lungi da noi pensare che in futuro la Marina possa allungarsi fino a Taiwan, ma nel frattempo significa garantire che l’occhio cinese non si intrometta là dove le acque del Mediterraneo sono già turbolente. Da un lato la Turchia e dall’altro gli interessi dell’Egitto e la spinta francese. Navi cinesi sono già transitate da quelle parti e pure in Marocco nel 2013. A Gibuti dove c’è una nostra base logistica si sono ancorati anche i cinesi per osservare meglio il Corno d’Africa. Ma non è la stessa cosa.

Nello spicchio di mare compreso tra Egitto, Cipro e Israele passano tubi sottomarini, informazioni sensibili oltre al gas. Ecco che è uno snodo fondamentale se si vuole tirare i puntini e fare in modo che dall’Iraq fino al confine con l’Algeria si uniscano i puntini e recuperare tutto il terreno perduto dopo la cacciata di Muhammar Gheddafi a Tripoli. Resta un tassello da rimpire. Si chiama Abdel Fattah Al Sisi e ultimamente frequenta molto l’Eliseo. Che, a differenza nostra, tiene ben separati gli affari militari e i temi dei diritti civili. Affidare le sorti dl Paese ancor più alla diplomazia militare può risultare la giusta leva di crescita. Il modello giusto per essere forti partner Nato e al tempo stesso player costruttivi e attivi dentro il panorama della Difesa Ue tutta ancora da valutare e costruire.

Innanzitutto, tra divisioni intestine e veti incrociati, la sua approvazione ha richiesto un mese di tempo, evidenziando in questo modo una preoccupante mancanza di tempestività. In secondo luogo, si registrano dei significativi nodi nel contenuto del pacchetto stesso. Il blocco dell’import di petrolio russo entrerà in vigore non prima di sei mesi, mentre alcuni Paesi hanno ottenuto eccezioni e deroghe. Tutti fattori che ovviamente indeboliscono l’efficacia di questa misura. Tra l’altro, non solo India e Cina stanno intensificando l’acquisto di petrolio russo, ma va ricordato che, nel complesso, l’Unione Europea dipende dal greggio di Mosca per il 27%: una cifra notevole, ma nettamente inferiore rispetto al 40% relativo al comparto del gas. Quel gas che potrebbe presto diventare oggetto di dibattito per eventuali nuove sanzioni europee alla Russia.
Tutti questi nodi nascono da due cause principali. La prima è chiara e riguarda l’atavico problema di governance dell’Unione Europea. La seconda ha invece a che fare con una drammatica assenza di strategia che ha portato Bruxelles, negli scorsi anni, a trascurare di fatto l’importante questione dell’autonomia energetica.

Purtroppo la classe dirigente europea ha preferito inseguire un ambientalismo ideologico e politicizzato, subendo inoltre il peso politico dell’allora cancelliera tedesca Angela Merkel, la quale – nel corso del suo lungo mandato – ha reso la Germania sempre più dipendente dal gas russo, nonostante i campanelli d’allarme lanciati alla comunità internazionale dall’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, già nel 2018. Sotto questo aspetto, va ricordato che fu proprio lei una delle principali fautrici del controverso gasdotto Nord Stream 2: un’opera, fortemente auspicata anche da Mosca, che ha invece costantemente allarmato Polonia e Ucraina.

Infine, non bisogna neppure trascurare che un certo ambientalismo ideologico ha ripetutamente auspicato di concentrare l’attenzione pressoché esclusivamente su investimenti legati alle energie rinnovabili: il che, attenzione, non è sbagliato in sé, ma si tratta di un’operazione che – come nel caso del gas – non può prescindere da considerazioni di carattere geopolitico. Alcune delle tecnologie che occorrono per le fonti di energia rinnovabile risultano infatti legate alle terre rare: elementi che sono attualmente in larga parte sotto il controllo della Repubblica popolare cinese. Questi sono aspetti che devono risultare ben chiari. Il tema dell’energia non può essere letto soltanto attraverso le lenti dell’ambiente o dell’economia, ma anche – se non soprattutto – attraverso quelle della geopolitica e della sicurezza nazionale: una necessità, questa, sottolineata anche dal Copasir in una sua relazione del gennaio 2022.

È infatti soltanto in questo modo che si può ridurre il rischio di vulnerabilità nei confronti di potenze ostili e che si può di conseguenza condurre una politica estera maggiormente autonoma. È pur vero che la Commissione Europea ha di recente presentato RePower EU: un piano energetico che avrebbe l’obiettivo di rendere l’UE indipendente dal gas russo. Si tratta tuttavia di una mossa tardiva, senza poi considerare che tale indipendenza non sarebbe comunque possibile prima di cinque anni. Ciò dimostra ulteriormente come, sul fronte della sovranità energetica, le due ultime Commissioni Europee si siano dimostrate inadeguate e fondamentalmente incapaci di affrontare tale dossier attraverso un approccio geopolitico. È pertanto necessario agire tempestivamente su piani molteplici.

Innanzitutto sarebbe auspicabile una stabilizzazione della Libia. Il Paese nordafricano è nuovamente sull’orlo della guerra civile e la sua instabilità rende estremamente difficoltoso un incremento della fornitura di gas: un incremento che, qualora si realizzasse, potrebbe ridurre significativamente la nostra dipendenza dalla Russia. In secondo luogo, sarebbe opportuno aumentare l’estrazione di gas dai giacimenti italiani e magari aprirne di nuovi, tenendo inoltre presente che la Croazia sta già conducendo trivellazioni nel Mare Adriatico. Ovviamente puntare sui giacimenti interni non risolverebbe di per sé il problema, ma contribuirebbe comunque ad incrementare la nostra autonomia energetica.

Un terzo fronte da considerare attentamente è quello del gasdotto EastMed: il progetto, che sembrava arenatosi, è tornato alla ribalta a causa dell’invasione russa dell’Ucraina. Quest’opera collegherebbe Israele a Cipro e, dopo essere arrivata in Grecia, raggiungerebbe la Puglia attraverso il gasdotto Poseidon. È chiaro che, oltre a garantire una notevole diversificazione nell’approvvigionamento energetico, questo progetto offrirebbe un ulteriore vantaggio: la fornitura di gas avverrebbe infatti nel contesto di una rete di Paesi in cui vigono sistemi democratici. Un fattore, questo, che ridurrebbe notevolmente il rischio di pressioni e ricatti energetici a scopo geopolitico. Ovviamente bisogna tenere presenti tre aspetti correlati.

Il primo è che il progetto necessiterà di alcuni anni per essere realizzato: ragion per cui è impellente che Roma si muova al contempo anche su altri fronti. In secondo luogo, è ovvio che, qualora EastMed dovesse procedere, si imporrebbe con ancora maggiore urgenza il tema della stabilità del Mediterraneo. Un fattore, questo, che deve essere garantito attraverso mezzi politici, diplomatici e, in caso, anche militari. Ricordiamo d’altronde il recente sequestro di due petroliere greche da parte dell’Iran, oltre al fatto che, nel recente passato, la Turchia ha mostrato un atteggiamento ambiguo nei confronti di EastMed. Terzo aspetto, la tecnologia. In pochi anni sono stati fatti passi da gigante e il mondo adesso sembra essere propenso per l’LNG. Ipotesi che apre ai nuovi progetti e accordi tra Israele ed Egitto con la possibilità di collegare con tubi solo una limitatissima parte del Mediterraneo orientale senza intaccare i confini turchi e greci per poi usare l’Egitto come terminal. Molto bene anche questa opportunità che in ogni caso non escluderebbe il ritorno a una ulteriore fonte di approvvigionamento.

L’Italia dovrebbe iniziare seriamente a interrogarsi sull’eventualità di aprire al nucleare di quarta generazione. Ricordiamo d’altronde che, proprio grazie all’energia nucleare, la Francia ha subìto contraccolpi inferiori rispetto ad altri Paesi dalle recenti sanzioni europee alla Russia.
Tutto questo non vuol dire ovviamente che le energie rinnovabili debbano essere trascurate. Bisogna tuttavia tener presente che il concetto di “sostenibilità” non dovrebbe avere solo una valenza ambientale ma anche geopolitica. Come accennato, le rinnovabili risultano spesso connesse alle terre rare, che – secondo il Copasir – sono “estratte quasi esclusivamente in Africa e controllate in massima parte da attori cinesi”. Ricordiamo del resto che, secondo lo US Geological Survey, nel 2019 la Cina era responsabile dell’80% delle importazioni di questi elementi a livello mondiale. Bisogna quindi fare estrema attenzione ad evitare che, mentre si cerca giustamente di ridurre la dipendenza energetica europea dalla Russia, si incrementi quella dalla Repubblica popolare cinese: quella Repubblica popolare che, tra l’altro, intrattiene strettissimi legami politici ed economici con Mosca. In tal senso, è necessario scongiurare la creazione di nuove dipendenze energetiche, che rischino di produrre impatti perniciosi dal punto di vista geopolitico. Sotto questo aspetto, una fonte rinnovabile sicura per l’Italia potrebbe essere costituita dall’energia idroelettrica: un settore che andrebbe pertanto tutelato e potenziato.

Attenzione: la questione della sovranità energetica non è un problema che si stanno ponendo soltanto l’Italia e, più in generale, l’Unione Europea. Il dibattito in materia è infatti particolarmente acceso anche negli Stati Uniti, dove il Partito Repubblicano sta criticando alcune politiche ambientaliste del presidente Joe Biden, giudicate eccessivamente ideologiche e, in definitiva, controproducenti. Politiche che, secondo i loro detrattori, stanno contribuendo ad alimentare il caro energia, oltre a rendere progressivamente vulnerabile la sicurezza nazionale. Non è d’altronde un caso che anche alcuni settori del Partito Democratico (soprattutto in aree come la Pennsylvania) mostrino una certa freddezza nei confronti di alcune misure green dell’attuale Casa Bianca. In tutto questo, nel gennaio del 2022, al Senato degli Stati Uniti è stata proposta un’iniziativa legislativa a livello bipartisan, per cercare di ridurre la dipendenza di Washington dalla Cina nel settore delle terre rare. Il tema è quindi considerato urgente al di là delle divisioni e degli steccati di natura partitica.

Tutto questo dimostra come il nodo della sovranità energetica riguarda l’Occidente nella sua interezza: un Occidente che deve comprendere i rischi della sua dipendenza dall’asse sino-russo. In tal senso, è bene che l’Italia non si faccia trovare impreparata. È, in altre parole, impellente che Roma abbandoni ogni velleità ideologica, privilegiando un approccio di tipo geopolitico. La sfida è quella di differenziare l’approvvigionamento energetico, aumentando così la propria autonomia. Va da sé che un simile obiettivo può essere pienamente raggiunto soltanto rilanciando il ruolo internazionale del nostro Paese: un rilancio che dovrebbe riguardare principalmente l’area del Mediterraneo e che dovrebbe avvenire nell’ottica di un urgente rafforzamento del fianco meridionale della Nato.

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